LuneDoc & MarteClass
Settembre 28, 2021 11:34 am
SI TORNA IN SALA CON I GRANDI DOCUMENTARI E I CLASSICI RESTAURATI
Nasce a Roma il nuovo progetto di Circuito Cinema e Cineteca di Bologna
Si torna in sala! Il lunedì al Quattro Fontane con il miglior cinema documentario; il martedì al Giulio Cesare con i grandi classici restaurati
GENNAIO
di Stefano Consiglio (Italia/2019) Fotografia: Paolo Ferrari. Montaggio: Silvia Di Domenico. Musiche: Nicola Piovani. Con l’amichevole partecipazione di: Angela Finocchiaro, Paolo Rossi, Stefania Sandrelli. Con interventi di: Francesco Tullio Altan, Stefano Benni, Maria Chaves, Ezio Mauro, Paolo Rumiz, Michele Serra. Produzione: Andrea Gambetta per Verdiana, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori per Indigo Film. Durata: 76’
Di Altan conosciamo le sue folgoranti vignette, il mitico Cipputi, le sue graphic novel, la cagnolina più amata dai bambini da quarant’anni a questa parte: Pimpa. Ma dell’uomo Altan conosciamo ben poco. Proverbiale è la sua ritrosia nel raccontarsi pubblicamente. Il docufilm di Stefano Consiglio “Mi chiamo Altan e faccio vignette” è uno strumento per capire chi sia realmente Francesco Tullio Altan. Altan parla per la prima volta di sé, delle sue indimenticabili vacanze da bambino, del rapporto con il padre antropologo Carlo Tullio Altan, della sua formazione artistica, dell’amore della sua vita: la moglie Mara Chaves. Di politica e di costume, di sport, di libri, di film, di disegnatori, vignettisti e pittori, di amicizia… Il film cerca di rendere più esplicito il suo sguardo sul mondo, uno sguardo lucido su quel che siamo in fondo tutti noi, gli italiani di ieri e quelli di oggi. Uno modo di raccontare senza indulgenza, ma pieno di umana comprensione. Il film è arricchito dalle testimonianze di Paolo Rumiz, Michele Serra, Ezio Mauro, da un monologo di Stefano Benni su “Che cos’è un Altan” e da alcune storiche vignette girate da attori in carne e ossa: Stefania Sandrelli, Angela Finocchiaro e Paolo Rossi hanno dato il loro volto e la loro voce ai personaggi disegnati dal maestro.
(Francia/1959) di Alain Resnais Sceneggiatura: Marguerite Duras. Fotografia: Michio Takahashi, Sacha Vierny. Montaggio: Jasmine Chasney, Henri Colpi, Anne Sarraute. Musica: Georges Delerue, Giovanni Fusco. Interpreti: Emmanuelle Riva (lei), Eiji Okada (lui), Stella Dassas (la madre), Pierre Barbaud (il padre), Bernard Fresson (il fidanzato tedesco). Produzione: Argos Films. Durata: 92′
Un capolavoro del cinema moderno firmato da Alain Resnais e sceneggiato da Marguerite Duras nella nuova, splendida versione restaurata. Un film stilisticamente innovativo, narrativamente dirompente, l’opera che alla fine degli anni Cinquanta segnò l’atto di nascita della nouvelle vague e una svolta epocale nella storia del cinema. Due amanti a Hiroshima. Lei francese, lui giapponese. L’evocazione degli orrori della bomba atomica si fonde e si alterna ai ricordi della donna, l’amore per un soldato tedesco nella Francia della seconda guerra mondiale. Hiroshima mon amour rompe con tutta la tradizione narrativa precedente, si muove tra presente e passato seguendo il flusso discontinuo e fluttuante della memoria. Tragico, lirico, frammentario, nasce dalla collaborazione tra un maestro del cinema e una grande scrittrice e si avvale della straordinaria performance di Emmanuelle Riva. Il restauro internazionale, coordinato dalla Cineteca di Bologna ed eseguito presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata con la supervisione di Renato Berta, ha rispettato pienamente l’estetica originale del film, riportando allo splendore originale il bianco e nero fotografato da Michio Takahashi e Sacha Vierny. Restaurato da Argos Films, Fondation Groupama Gan pour le Cinéma, Fondation Technicolor pour le Patrimoine du Cinéma, Fondazione Cineteca di Bologna, con il sostegno di Centre National du Cinéma et de l’Image Animée presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata nel 2013. Color grading supervisionato da Renato Berta.
di Stefano Savona (Italia/2018) Sceneggiatura: Stefano Savona, Léa Mysius, Penelope Bortoluzzi. Fotografia: Stefano Savona. Art director animazioni: Simone Massi. Montaggio: Luc Forveille. Suono: Jean Mallet. Musica: Giulia Tagliavia. Produzione: Dugong, Pico Films, Alter Ego. Durata: 128’
Da quando la piccola Amal è tornata nel suo quartiere, ricorda solo un grande albero che non c’è più. Un sicomoro su cui lei e i suoi fratelli si arrampicavano. Si ricorda di quando portava il caffè a suo padre nel frutteto. Dopo è arrivata la guerra. Amal e i suoi fratelli hanno perso tutto. Sono figli della famiglia Samouni, dei contadini che abitano alla periferia della città di Gaza. È passato un anno da quando hanno sepolto i loro morti. Ora devono ricominciare a guardare al futuro, ricostruendo le loro case, il loro quartiere, la loro memoria. Sul filo dei ricordi, immagini reali e racconto animato si alternano a disegnare un ritratto di famiglia prima, dopo e durante i tragici avvenimenti che hanno stravolto le loro vite in quel gennaio del 2009, quando, durante l’operazione ‘Piombo fuso’, vengono massacrati ventinove membri della famiglia. Premio ‘L’Œil d’Or’ al Festival di Cannes 2018 per il Miglior documentario “Un film di straziante potere emotivo” (Paolo Mereghetti)
(Le mépris, Francia-Italia/1963) Regia: Jean-Luc Godard. Soggetto: dal romanzo Il disprezzo di Alberto Moravia. Sceneggiatura: Jean-Luc Godard. Fotografia: Raoul Coutard. Montaggio: Agnès Guillemot. Musica: Georges Delerue. Interpreti: Brigitte Bardot (Camille), Michel Piccoli (Paul), Jack Palance (Jeremy), Georgia Moll (Francesca), Fritz Lang (sé stesso), Jean-Luc Godard (assistente alla regia), Raoul Coutard (operatore), Linda Véras (sirena). Produzione: Georges de Beauregard, Carlo Ponti, Joseph E. Levine per Films de Beauregard / Les Films Concordia / Champion. Durata: 105′
Per la prima volta in sala il director’s cut di un classico della nouvelle vague, all’epoca stravolto dalla produzione (per l’edizione italiana Carlo Ponti lo fece scorciare di una ventina di minuti). Il romanzo di Moravia diviene il pretesto per uno dei film più lineari e narrativi di Godard, dove il paesaggio mediterraneo e marino offre un sontuoso contrasto alla volgarità del milieu cinematografico e all’amarezza della fine di una coppia. Tra Cinecittà e una Capri dai colori irresistibilmente pop, Michel Piccoli lavora sul set di un improbabile adattamento dell’Odissea (l’aristocratico regista è Fritz Lang che interpreta se stesso), mentre la moglie Brigitte Bardot è corteggiata dal produttore. Restaurato in 2K nel 2013 da StudioCanal, a partire dal negativo immagine. La color correction è stata supervisionata dal direttore della fotografia del film, Raoul Coutard.
di Martin Scorsese e David Tedeschi (USA/2014) Fotografia: Ellen Kuras, Lisa Rinzler. Montaggio: Paul Marchand, Michael J. Palmer. Interpreti: Noam Chomsky, Michael Chabon, Norman Mailer, Joan Didion, Susan Sontag, James Baldwin, Mary Beard, Rae Hederman, Timothy Garton Ash, Robert Silvers (se stessi). Produzione: Margaret Bodde, Martin Scorsese, David Tedeschi per Sikelia Productions. Durata: 97’
Quando abbiamo fondato la rivista non volevamo far parte del sistema. Anzi, volevamo tentare di sondare i meccanismi e la sincerità del sistema, fosse esso politico o culturale. Robert Silvers, direttore della New York Review of Books. The 50 Year Argument, diretto da Martin Scorsese e dal suo fedele collaboratore David Tedeschi, cavalca le onde della storia letteraria, politica e culturale proprio come ha fatto la celebre rivista. Provocatorio, eccentrico e incendiario, il film intreccia rari materiali d’archivio, interviste ai collaboratori, estratti da opere di autori emblematici quali James Baldwin e Gore Vidal e filmati vérité originali girati nella redazione della “Review”. Il film riesce a cogliere la forza con cui le idee determinano la storia. “Le riviste non cambiano il mondo” dice il saggista Avishai Margalit “ma influenzano il clima intellettuale come il cavallo degli scacchi, una mossa avanti e poi di lato, senza seguire una linea retta”.
(Bronenosec Potëmkin, URSS/1925) Regia: Sergej Ejzenštejn. Sceneggiatura: Nina AgadžanovaŠutko, Sergej Ejzenštejn. Fotografia: Eduard Tissé. Scenografia: Vasilij Rachal’s. Musica: Edmund Meisel. Interpreti: Aleksandr Antonov (marinaio Vakulincuk), Vladimir Barskij (comandante Golikov), Grigorij Aleksandrov (ufficiale Giljarovskij), Aleksandr Levšin, Andrej Fajt, Marusov (ufficiali), Zavitok (medico di bordo Smirnov), Michail Gomorov (marinaio nel comizio), Ivan Bobrov (marinaio recluta). Produzione: Goskino. Durata: 68’
È il film più famoso della storia del cinema e uno dei meno visti. Mai visto nella versione che qui proponiamo, restituito da un luminoso restauro allo splendore delle sue immagini. Un film che nella Russia del 1925 celebrava la rivolta dei marinai e della città di Odessa avvenuta nel 1905. Un film che “emergeva dal mare” con l’impeto creativo di un regista di ventisette anni, Sergej Ejzenštejn, destinato a portare la rivoluzione nel linguaggio cinematografico. La corazzata Potëmkin è un richiamo alla necessità della ribellione quando la giustizia e la dignità sono calpestate, un alto grido umanista in nome della fratellanza. Scrostato da decenni di polvere critica, sottratto al luogo comune dell’invettiva fantozziana, il capolavoro di Ejzenštejn può levare l’ancora verso le nuove generazioni. Perché questo è un film di una bellezza pazzesca! Restaurato in 35mm nel 2005 da Deutsche Kinemathek con il sostegno di Bundesarchiv-Filmarchiv, BFI – National Archive e Russian State Archive of Literature and Arts (RGALI). Per la versione restaurata la musica originale composta da Edmund Meisel per la prima tedesca del 1926 è stata restaurata da Helmut Imig con l’aiuto di Lothar Prox. Musiche originali di Edmund Meisel eseguite dalla Filarmonica del Teatro Comunale di Bologna diretta da Helmut Imig
(Francia/2017) di Agnès Varda e JR Regia e sceneggiatura: Agnès Varda, JR. Fotografia: Romain Le Bonniec, Claire Duguet, Nicolas Guicheteau, Valentin Vignet. Montaggio: Maxime Pozzi-Garcia. Musica: Matthieu Chedid. Ciné-Tamaris, JRSA, Rouge International, Arte France Cinéma, Arches Films. Durata: 93’
Ha ottantanove anni e fa film come se ne avesse ventinove. Agnès Varda, nello splendore dei suoi anni d’oro, è diventata una maga umanista. Qui fa squadra con JR, street photographer che deve la sua reputazione ai giganteschi graffiti urbani e potrebbe essere definito un equivalente gallico di Banksy. Lui è un hipster beffardo e sovranamente flemmatico di trentatré anni con l’immancabile cappellino e gli occhiali da sole, lei è una leggenda della nouvelle vague, caschetto di capelli bicolore e un volto che conserva la splendida gravità che l’ha sempre contraddistinta. Ma entrambi sono outsider dell’arte, interessati a esprimere visivamente la vita seguendo le proprie regole. Varda e JR, che collaborano alla regia, si mettono in viaggio con un unico liberatorio obiettivo: in ciascun luogo visitato JR creerà giganteschi ritratti in bianco e nero degli abitanti che andranno a ricoprire case, fienili, facciate di negozi, ogni superficie libera. Così facendo, doneranno grandezza a quelle persone. Non una grandezza da supereroi, ma una grandezza umana, da persone in carne e ossa quali sono. I due conoscono (e fotografano) operai, formaggiai, camionisti. È una ricognizione della Francia rurale, e le immagini che affiorano sono giocose, spettrali e belle e commoventi: Andy Warhol incrocia Walker Evans. Visages Villages lancia un potente messaggio sul tipo di società che stiamo diventando. La nostra dipendenza dalla ricchezza e dalla celebrità ha iniziato a svuotare il valore della vita normale, e il film dà una sublime strigliata a questo atteggiamento. (Owen Gleiberman)
DICEMBRE
Martedì 7 dicembre
GLI UCCELLI
(The Birds, USA/1963) di Alfred Hitchcock (119’)
Sceneggiatura: Evan Hunter, dal romanzo di Daphne du Maurier. Fotografia: Robert Burks. Montaggio: George Tomasini. Musiche: Remi Gassman, Oskar Sala, Bernard Herrmann. Scenografia: Robert Boyle. Interpreti e personaggi: Tippi Hedren (Melanie Daniels), Rod Taylor (Mitch Brenner), Jessica Tandy (Lydia Brenner), Suzanne Pleshette (Annie Hayworth),Veronica Cartwright (Cathy Brenner), Ethel Griffies (Mrs Bundy), Charles McGraw (Sebastian Sholes). Produzione: Alfred Hitchcock per Universal Pictures.
Se si hanno occhi per vedere, orecchie per ascoltare e un cuore per sentire, Gli uccelli è un film magnifico. Di una bellezza ammaliante che, secondo il procedimento caro a Hitchcock da La finestra sul cortile e messo a punto con Vertigo, ci trascina lentamente, dolcemente, ma irresistibilmente, dalla dimensione del quotidiano verso i territori lontani del fantastico. È un film musicale. Inizia con un andante piacevole, grazioso, seducente, che con una minima modulazione, diventa poco a poco grave, strano, angosciante. Poi improvvisamente esplode un allegro vivace, vorace, rapace, che a sua volta si appesantisce, assumendo risonanze terrificanti. Infine, si conclude con una corona tra le più minacciose che si possano immaginare. […] Questo film – il più compiuto, il più meditato, il più profondo di Hitchcock, insieme a Psycho – è l’austera riflessione di un uomo che si interroga sui rapporti tra l’umanità e il mondo. Rapporti considerati da tutte le possibili angolazioni, tanto quella metafisica, occulta, filosofica, scientifica, psicanalitica (in questo film la psicanalisi è fondamentale) quanto semplicemente quella naturale. Riflessione pessimista, apocalittica. È la più grave accusa contro la nostra società materialista, alla quale non accorda che poche speranze prima della catastrofe. (Jean Douchet)
LUNEDOC 13 dicembre
VARDA BY AGNÈS
(Varda par Agnès, Francia/2019) di Agnès Varda e Didier Rouget (115’)
Sceneggiatura: Agnès Varda. Fotografia: François Décréau, Claire Duguet, Julia Fabry. Montaggio: Agnès Varda, Nicolas Longinotti. Interpreti: Agnès Varda, Sandrine Bonnaire, Nurith Aviv, Hervé Chandès. Produzione: Rosalie Varda per Ciné-Tamaris, HBB26, Scarlett Production, MK2 Flms, Ciné+.
“Nel 1994, in coincidenza con una retrospettiva alla Cinémathèque française, ho pubblicato un libro intitolato Varda par Agnès. Venticinque anni dopo, lo stesso titolo viene dato al mio film fatto di immagini in movimento e di parole. Il progetto è lo stesso: fornire le chiavi della mia opera. Il film si divide in due parti, una per secolo. Il Ventesimo secolo va dal mio primo lungometraggio La Pointe courte nel 1954 all’ultimo del 1996, Cento e una notte). Nel mezzo ho girato documentari, film, sia lunghi che brevi. La seconda parte inizia nel Ventunesimo secolo, quando le piccole cineprese digitali hanno cambiato il mio approccio al documentario, da Les Glaneurs et la glaneuse nel 2000 a Visages, Villages diretto con JR nel 2017. Ma in quel periodo ho creato soprattutto installazioni d’arte, i Triptyques atypiques, le Cabanes de Cinéma, e ho continuato a fare documentari, come Les Plages d’Agnès. Tra le due parti c’è un piccolo promemoria della mia prima vita di fotografa. […] Potremmo chiamarla ‘lezione magistrale’, ma non mi sento una maestra e non ho mai insegnato. Non mi piace l’idea. Non volevo farne una cosa noiosa. Così si svolge in un teatro pieno di gente, o in un giardino, e cerco di essere me stessa e di trasmettere l’energia o l’intenzione o il sentimento che voglio condividere. È quello che chiamo ‘cinescrittura’, in cui le scelte partecipano a qualcosa che si chiama ‘stile’”. (Agnès Varda)
MARTECLASS 14 dicembre
(Cléo de cinq à sept, Francia/1962) di Agnès Varda (90′)
Soggetto e sceneggiatura: Agnès Varda. Fotografia: Alain Levent, Jean Rabier. Montaggio: Pascale Laverrière, Janine Verneau. Scenografia: Jean-François Adam, Bernard Evein. Musica: Michel Legrand. Interpreti: Corinne Marchand (Cléo), Antoine Bourseiller (Antoine), Dominique Davray (Angèle), Dorothée Blank (Dorothée), Michel Legrand (Bob), Loye Payen (Irma, la cartomante), Jean Champion (il padrone del bar), Jean-Pierre Taste (il ragazzo del bar), Renée Duchateau (la venditrice di cappelli), José Luis de Vilallonga (l’amante di Cléo), Serge Korber (Maurice), Raymond Cauchetier (Raoul, il proiezionista), Robert Postec (dottor Valineau). Produzione: Georges de Beauregard e Carlo Ponti per Rome-Paris Films.
Alle 5 del pomeriggio, il 21 giugno 1961, Cléo scoppia a piangere da una cartomante. Attende il risultato di un esame medico. Ha paura di avere un cancro. Cléo esce. Tutti la guardano. È una donna splendida, civettuola e capricciosa. Compra un cappello e rincasa in taxi. Per novanta minuti, in mezzo a orologi a pendolo che segnano il trascorrere del tempo, non la abbandoniamo per un istante. La sua governante, il suo amante e i suoi musicisti non capiscono la sua ansia. Ripete una canzone, il cui testo la turba. Esce nuovamente, sola. La paura l’ha svegliata. Inizia a osservare gli altri, i passanti, gli avventori dei caffè e un’amica premurosa. Va in un parco a guardare gli alberi e incontra un soldato a fine licenza. La complicità che nasce tra i due, in questo momento pericoloso delle loro vite, placa Cléo. Lui l’accompagna all’ospedale prima di ripartire per la guerra d’Algeria. Vivono un momento di grazia nel giorno più lungo dell’anno.
Restaurato nel 2012 da Ciné Tamaris presso gli Archives Françaises du Film del CNC e Digimage, con il sostegno del CNC
LUNEDOC 20 dicembre
DAWSON CITY – IL TEMPO TRA I GHIACCI
(Dawson City, USA/2016) di Bill Morrison (120′)
Sceneggiatura e fotografia: Bill Morrison. Musica: Alex Somers. Produzione: Madeleine Molyneaux e Bill Morrison per Hypnotic Pictures e Picture Palace Pictures, in associazione con ARTE – La Lucarne e con la partecipazione di The Museum of Modern Art
Dawson City, Yukon, Canada. Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti, ultimo avamposto della civiltà yankee (in preda alla febbre dell’oro), al di là un deserto gelato, dove nacquero molte fortune americane. C’è un cinema e i film arrivano, con anni di ritardo; poi però rispedire indietro le pellicole è troppo costoso. A fine anni Settanta, scavi in quello che era stato un campo da hockey ne riportano alla luce un piccolo giacimento, preservato nel ghiaccio. In molti casi, si tratta di film dati per perduti. Bill Morrison usa il found footage per montare una “travolgente ballata sugli anni della corsa all’oro, fatta di newsreel, comiche e melodrammi; il suo discorso stabilisce un parallelo tra gli anni pionieristici del cinema e l’insediamento americano nella sua più remota frontiera” (Sophie Mayer). Presentato a Venezia, dove ha suscitato stupore ed emozione, il film di Morrison reca il valore aggiunto della sua storia: come se le persone sullo schermo si fossero appena svegliate da un lungo sonno nel ghiaccio, fantasmi convocati a narrare la propria lontana avventura, parte della storia americana del Ventesimo secolo.
MARTECLASS 21 dicembre LA FEBBRE DELL’ORO
(The Gold Rush, USA/1925) di Charles Chaplin (92’)
Sceneggiatura: Charles Chaplin. Fotografia: Roland Totheroh. Interpreti: Charles Chaplin (il cercatore), Georgia Hale (Georgia), Mark Swain (Big Jim McKay), Tom Murray (Black Larson) Produzione: Chaplin-United Artists.
Restauro digitale eseguito dalla Cineteca di Bologna presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata in collaborazione con Criterion Collection, Photoplay Productions e Roy Export Company S.A.S. Musiche originali di Charles Chaplin restaurate e dirette da Timothy Brock eseguite dall’Orchestra Città Aperta.
A parte tutto – a parte gli abiti buffi, i baffetti e gli scarponi – volevo produrre qualcosa che commuovesse la gente. Cercavo l’atmosfera dell’Alaska, con una storia d’amore dolce, poetica, eppure comica. […] Volevo che il pubblico piangesse e ridesse. Quale che sia la sua opinione su questo film, perlomeno io sarò riuscito a restare fedele alla mia idea originale. […] Siamo solo all’inizio [del cinema] e sono fin troppi i produttori che usano l’approccio sbagliato, pensando che il cinema sia un mezzo espressivo affine al teatro invece di essere qualcosa di completamente nuovo. Pensai a quella scena della Febbre dell’oro in cui faccio a pezzi il cuscino e le piume bianche danzano sullo schermo nero. È impossibile da rifare sul palcoscenico! A me è piaciuta più di qualsiasi altra cosa abbia fatto in quel film. Mi ci sono impegnato veramente fino in fondo. Quella scena ha una specie di intensità. Ho cercato di metterci dentro qualcosa di disperato, di terribile e di esprimerlo in modo nuovo, come una sorta di musica visiva. (Charlie Chaplin)
NOVEMBRE
Martedì 2 OTTO E MEZZO (Italia/1963) di Federico Fellini (138′)
È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia. Avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C’è e non c’è. Perfetto. Non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. (Federico Fellini)
Lunedì 8 CITY HALL (USA/2020) di Frederick Wiseman (275′)
Da oltre mezzo secolo Wiseman indaga e documenta la vita delle istituzioni (culturali, ma non solo), maestro di un cinema che interroga il reale con uno sguardo lucido e militante, mai imparziale eppure ‘giusto’, per usare un termine a lui caro. Dopo l’Università di Berkeley, la National Gallery e la Public Library di New York, nel suo ultimo lavoro ritorna nella natia Boston per raccontarci ‘dal di dentro’ il governo di una grande città con l’ampio spettro di servizi che spesso diamo per scontati, dalla polizia, ai vigili del fuoco, alla sanità, fino alle politiche per la giustizia razziale, l’edilizia accessibile, le azioni sul clima. Per “dimostrare che è necessario avere un governo se si vuole vivere bene insieme”.
Martedì 9 EFFETTO NOTTE (La Nuit américaine, Francia/1973) di François Truffaut (115′)
A Nizza un regista gira la storia di una sposina che fugge col suocero, e il set vive la mobilitazione incrociata di crisi e sentimenti tra personaggi della finzione e della realtà. Celebratissimo (premio Oscar per il miglior film straniero), e il più sincero e interessante, tra i film sull’amour du cinéma: Truffaut rende omaggio a Welles, a Renoir, a Hitchcock, ma soprattutto dà splendida messinscena “alla domanda che mi tormenta da trent’anni: il cinema è più importante della vita? […] Non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti, i film vanno avanti come treni nella notte”.
Lunedì 15 FAITH (Italia/2019) di Valentina Pedicini (90′)
Ventidue persone hanno compiuto una scelta radicale, sottraendosi al mondo. Non sono eremiti millennial. Pregano e si allenano: kung fu, arti marziali. Consacrano dal 1998 corpo e anima in vista di un bene superiore, per costruire un nuovo mondo. Vivono in regime quasi monastico, il Maestro, che è il fondatore della comunità, battezza gli uomini monaci guerrieri, e le donne madri guardiane. Ma tra loro si definiscono i Guerrieri della luce.
Sono entrata in questo mondo e in questo film con una domanda. Volevo capire perché si decide a un certo punto di abbandonare il mondo esterno e parte della propria identità e di mettere la vita e l’esistenza nelle mani di qualcun altro. Faith non è un film su una setta, loro non sono una setta. È un film su un meccanismo psicologico, sulle dinamiche e relazioni tra le persone. (Valentina Pedicini).
Martedì 16 IL SETTIMO SIGILLO (Det sjunde inseglet, Svezia/1956) di Ingmar Bergman (96′)
L’evocazione visionaria del XIV secolo racchiusa in questo film ha origini remote che affondano nelle fantasie dell’infanzia. Il Medioevo di Bergman è una dimensione dove proiettare fantasmi e angosce che assediano l’individuo nel profondo. “Il settimo sigillo è sempre stato il mio film preferito. Se io dovessi descriverne la storia e tentare di persuadere un amico a vederlo con me, direi: si svolge nella Svezia medievale flagellata dalla peste, ed esplora i limiti della fede e della ragione, ispirandosi a concetti della filosofia danese e tedesca. Ora, questa non è precisamente l’idea che ci si fa del divertimento, eppure il tutto è trattato con tale immaginazione, stile e senso
della suspense che davanti a questo film ci si sente come un bambino di fronte ad una favola straziante e avvincente al tempo stesso” (Woody Allen).
Lunedì 22 DAGUERRÉOTYPES (Francia-RFT/1976) di Agnès Varda (80′)
Agnès, insieme alla figlia Rosalie, esce in strada e filma. La strada è Rue Daguerre, nel 14° arrondissement, dove ha abitato per cinquant’anni. La sua cinepresa interroga le vite di bottega, i negozianti della via, cerca e trova la concreta poesia delle baguettes croccanti, delle bistecche fresche di taglio, delle stoffe cucite a mano. Intanto ascolta storie, che sono talora storie di migrazioni, di gente che ha cercato e trovato un posto nel mondo. Sì, se ci aspettiamo il fascino di una Parigi che non c’è più, l’attesa è ripagata. Senza dimenticare che questo è “uno dei grandi documentari moderni, che ha fondato un nuovo genere, l’antropologia dell’affetto” (Richard Brody, “The New Yorker”).
Martedì 23 LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE (Vertigo, USA/1958) di Alfred Hitchcock (128’)
“Nell’odissea dello spazio e del tempo, miseri amanti, immersi nella spirale di una città, San Francisco, vivono nel desiderio sempre umiliato di un paradiso terrestre impossibile” (Maurizio Del Ministro). Capolavoro tra i capolavori hitchockiani degli anni Cinquanta, di tutti il più esistenziale: sotto la vernice del Technicolor serpeggia il senso del disagio, dell’umana inadeguatezza, della ragione inservibile, delle passioni inutili, d’una tristezza che Truffaut arrivò a chiamare necrofilia. “Perché ci si insinua un sospetto: forse il solo amore eterno di cui siamo capaci è quello per chi non ci appartiene più. L’amore che non muore è l’amore per un fantasma” (Gianni Amelio). Il cinema, ovvero rendere tangibili le regole dell’attrazione: per il vuoto, per la schiena di Kim Novak bordata di seta verde.
Lunedì 29 IL MONDO PERDUTO (Italia/1954-1959) di Vittorio De Seta (113’)
“Un antropologo che si esprime con la voce di un poeta” (Martin Scorsese). Il mondo perduto raccoglie i documentari che De Seta ha girato in Sardegna, Sicilia e Calabria tra il 1954 e il 1959, dove il lavoro e i gesti quotidiani di pastori, pescatori e contadini evidenziano la forza di un rito antichissimo e la dignità di un rapporto anche doloroso, eppure leale, con mare terra e cielo. De Seta, dopo cinquant’anni, è tornato su questi lavori restaurati dalla Cineteca di Bologna e, con piccoli ritocchi, li ha montati nel racconto continuo di un mondo che, se all’epoca sembrava in via d’estinzione sotto i colpi del ‘progresso’, oggi ci pare conservi il senso di grandezza e malinconia di un reperto archeologico.
Martedì 30 JULES E JIM (Jules et Jim, Francia/1961) di François Truffaut (106’)
La dolce vita secondo Truffaut. Nella Parigi bohémienne negli anni Dieci, due uomini e una donna provano ad amarsi oltre le regole, attraverso il tempo, la guerra, matrimoni e amanti, accensioni e delusioni: Jeanne Moreau con i suoi travestimenti, il suo broncio altero, la sua voce magica percorre tutti i tourbillons de la vie, ma alla fine è lei a non saper accettare la resa. “Abbiamo giocato con le sorgenti della vita, e abbiamo perso”. Appunto il film definitivo sul perdere, sul perdersi. Capolavoro d’utopia dolcemente amorale, infinitamente replicato in tanti film à la manière de.
OTTOBRE
lunedì 4 IL PASSAGGIO DELLA LINEA (Italia/2007) di Pietro Marcello (57′)
“Il titolo che rivela Marcello agli spettatori più attenti, viaggio sugli espressi notturni che di lì a poco sarebbero scomparsi. Una serie di incontri con viaggiatori, tra i quali emerge Arturo, anziano europeista libertario che ha scelto di vivere sui treni. L’enorme quantità di materiale raccolto, spesso già composto con un occhio pittorico, viene completamente rielaborato in un montaggio creativo, a metà tra il saggistico e il lirico. Il risultato può ricordare quello che Pasolini definiva ‘cinema di poesia'”. (Emiliano Morreale). Si ringraziano Pietro Marcello e Indigo film.
martedì 5 – FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (À bout de souffle, Francia/1960) di Jean-Luc Godard (90’)
Parigi 1959, il centro del mondo. Godard dirige, Truffaut scrive. Belmondo/Poiccard, piccolo omicida, corre a perdifiato per sfuggire alla polizia e a cinquant’anni di cinema di papà; Jean Seberg vende l’“Herald Tribune” sugli Champs Elysées, s’innamora, lo tradisce: ‘déguelasse’. Poco budget, molto amore per il B-movie americano, sguardi in macchina, jump-cuts, l’euforizzante sensazione che tutto sta per ricominciare. Irripetibile, e forever young. “Fino all’ultimo respiro appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Per di più Fino all’ultimo respiro era il genere di film in cui tutto era permesso, era nella sua natura. Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto”. (Jean-Luc Godard) Restaurato in 4K da StudioCanal e CNC – Centre national du cinéma et de l’image animée presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata a partire dal negativo originale.
lunedì 11 – BELOW SEA LEVEL (Italia-USA/2008) di Gianfranco Rosi (105’)
In una base militare dismessa a duecentocinquanta chilometri da Los Angeles, quaranta metri sotto il livello del mare, sopravvivono sette homeless, vittime del destino e della povertà. Cercano la normalità in una situazione estrema, rifugiandosi nella solidarietà e nel senso di comunità. Rosi (al suo primo lungometraggio) ha vissuto accanto a loro quattro anni, mettendo in relazione queste storie in bilico tra speranza e disperazione con un deserto americano mai così lontano dall’immaginario della frontiera, “non inteso come luogo mitico ed evocativo, ma come punto d’approdo, pura topografia” (Gianfranco Rosi) Si ringraziano Donatella Palermo e la Stemal Entertainment.
martedì 12 – APOCALYPSE NOW – FINAL CUT (USA/2019) di Francis Ford Coppola (183′)
Capolavoro titanico, visionario, wagneriano.”Coppola compie la scelta strategica di collocarsi non solo al di fuori della tradizione del war film, ma al di fuori di ogni ipotesi di tipo mimetico […] Apocalypse Now è ispirato a Cuore di tenebra di Conrad, ma si rifà a una vasta gamma di testi letterari (Eliot, Kipling, Frazer) e soprattutto attinge all’immaginario del romanzo americano ottocentesco. Nel Vietnam di Coppola, la massa scura degli alberi si configura come il simbolo di una natura arcaica e terribile, che si fa beffe della ragione della Storia che l’uomo bianco vorrebbe imporle” (Giaime Alonge). Secondo il regista, dopo quella del 1979 e la monumentale Redux , Final Cut è finalmente la versione perfetta. “È stata anche l’occasione per applicare al film le moderne tecnologie, usando i sistemi Dolby Vision e Atmos per renderlo quanto più possibile viscerale e coinvolgente. È un’esperienza sensoriale straordinaria, con colori profondi e un suono sfaccettato che amplifica l’effetto ipnotico del film” (John DeFore). Restaurato in 4K nel 2019 da American Zoetrope in collaborazione con L’Immagine Ritrovata presso il laboratorio Roundabout a partire dal negativo camera originale.
lunedì 18 – FAITH (Italia/2019) di Valentina Pedicini (90′)
Ventidue persone hanno compiuto una scelta radicale, sottraendosi al mondo. Non sono eremiti millennial. Pregano e si allenano: kung fu, arti marziali. Consacrano dal 1998 corpo e anima in vista di un bene superiore, per costruire un nuovo mondo. Vivono in regime quasi monastico, il Maestro, che è il fondatore della comunità, battezza gli uomini monaci guerrieri, e le donne madri guardiane. Ma tra loro si definiscono i Guerrieri della luce. Sono entrata in questo mondo e in questo film con una domanda. Volevo capire perché si decide a un certo punto di abbandonare il mondo esterno e parte della propria identità e di mettere la vita e l’esistenza nelle mani di qualcun altro. Faith non è un film su una setta, loro non sono una setta. È un film su un meccanismo psicologico, sulle dinamiche e relazioni tra le persone. Il titolo del film non fa riferimento solo alla fede religiosa, ma a quella in qualcuno. […] (Valentina Pedicini) Si ringraziano Donatella Palermo e la Stemal Entertainment.
martedì 19 – ELEPHANT MAN (GB-USA/1980) di David Lynch (124′)
La storia di John Merrick, l’uomo elefante, il freak della Londra proto-industriale, serve a Lynch per due motivi: mostrare il lato intimamente mélo del suo cinema e trovare una via d’entrata a Hollywood. The Elephant Man è ibrido e tragicomico come il suo protagonista, da una parte trascina al pianto il grande pubblico e dall’altra fa saettare schegge di orrido e memorie di Tod Browning. Non meno ancestrale e traumatico di Eraserhead, The Elephant Man si ‘nasconde’ dietro il film di malattia anni Ottanta per costruire una nuova riflessione sul visibile e sull’orrore. (Roy Menarini). Restaurato nel 2020 da StudioCanal a partire dal negativo originale con la supervisione di David Lynch.
lunedì 25 – CITYHALL (USA/2020) di Frederick Wiseman (275’)
Da oltre mezzo secolo Wiseman indaga e documenta la vita delle istituzioni (culturali, ma non solo), maestro di un cinema che interroga il reale con uno sguardo lucido e militante, mai imparziale eppure ‘giusto’, per usare un termine a lui caro. Dopo l’Università di Berkeley, la National Gallery e la Public Library di New York, nel suo ultimo lavoro ritorna nella natia Boston per raccontarci ‘dal di dentro’ il governo di una grande città con l’ampio spettro di servizi che spesso diamo per scontati, dalla polizia, ai vigili del fuoco, alla sanità, fino alle politiche per la giustizia razziale, l’edilizia accessibile, le azioni sul clima. Per “dimostrare che è necessario avere un governo se si vuole vivere bene insieme”.
martedì 26 – AMARCORD (Italia-Francia/1973) di Federico Fellini (125′)
“Se si uniscono ‘amare’, ‘core’, ‘ricordare’ e ‘amaro’, si arriva a Amarcord”, diceva Fellini. Esattamente vent’anni dopo avere raccontato la storia di una fuga dalla provincia in I vitelloni, l’autore ritorna in quel piccolo mondo, ricostruendo gli ambienti della sua adolescenza a Cinecittà e a Ostia. Ma, significativamente, evita di inserire nella folla dei personaggi un ‘doppio’ di se stesso (a differenza di Roma, dove si mostra bambino, giovane e senza la mediazione di un attore). Infatti la famiglia che vediamo rievocata nel film è quella dell’amico d”infanzia Titta Benzi e intorno a lui pullula un’umanità descritta con tinte sanguigne e linee grottesche (soprattutto i rappresentanti delle istituzioni, il clero e i gerarchi fascisti), con tenera sensualità (Gradisca) e un’ironia al tempo stesso affettuosa e graffiante. La vitalità delle figure che popolano il film (compresa l’emarginata ninfomane Volpina) cela una sotterranea, profonda malinconia (l”amaro’ sopra citato). Il piccolo borgo romagnolo degli anni Trenta rievocato nel film, riassume una delle più penetranti immagini dell’Italia secondo Fellini: un piccolo mondo immaturo e conformista, succube di un regime becero e mistificatore, o tristemente impotente di fronte alle sue violenze. (Roberto Chiesi). Restauro realizzato da Cineteca di Bologna con il sostegno di yoox.com e il contributo del Comune di Rimini. In collaborazione con Cristaldifilm e Warner Bros.